Il venditore di fumo        

                                  

Il mercato si animava alle prime luci dell'alba: lungo il recinto fuori città si assiepavano i muli a mano a mano che giungevano, dondolando, i mercanti ancora assopiti, accoccolati sul dorso tra grosse ceste ricolme di merci. Si riscuotevano alla sosta per andare ad accovacciarsi più in là, oltre il muro, ciascuno al suo posto fissato per sempre secondo la merce: a est i venditori di granaglie e spezie, a sud di erbe, a ovest di bestiame, a nord di vasellame tappeti stoffe, al centro il barbiere. Ognuno sotto una sua tenda che avrebbe orientato con il sole, su una stuoia ma anche nella polvere, purché al riparo fosse la merce. E non c'era vendita senza contrattazione: allora il mercante si animava per spuntare un buon prezzo, gli occhi vispi nel viso bruciato dal sole: quello era il suo piacere soprattutto se poteva fare da sé senza mediazione come invece dovevano accettare le donne -maledette se avessero rivolto direttamente la parola agli estranei- oppure El-Farah il venditore di fumo. Accovacciato nella sabbia, gli occhi allucinati in un viso inebetito, si dondolava muto, ravvivandosi di botto quando si alzava il vento dal deserto. Allora parlava e raccontava la sua storia.

Come tanti El-Farah era stato ceduto, bambino, in cambio di qualche moneta, agli artigiani: trottava dall'alba al tramonto trasportando cumuli di lana o di pelli, sacchi enormi di babbucce o panni da una bottega all'altra per le diverse parti della lavorazione. Spariva, piccolo com'era, sotto quei carichi, sognando di liberarsene per diventare a sua volta artigiano: quanto doveva essere comodo starsene tranquillo nella bottega, creando con la propria abilità oggetti che tutti ammirano e fanno a gara per acquistare! Ed era riuscito ad avere la sua bottega, entrando al servizio di un sarto ormai vecchio, che cercava un aiutante nel cucito. El-Farah era svelto, preciso, aveva fantasia nello scegliere e accostare i tessuti, sapeva drappeggiarli con garbo secondo le figure: aveva così fatto crescere i clienti e tenuto la bottega quando il vecchio orami non c'era stato più. Ma perché faticare a tagliare e cucire, aguzzare la vista nel buio ad ultimare un abito promesso, quando ci potrebbe essere chi lavora per te e tu ti riservi la parte privilegiata della contrattazione e della vendita? Fu così che El-Farah lasciò nella bottega ragazzini mal pagati che lavorassero al suo posto, per trasferirsi nel marcato sotto una sua tenda dove facevano bella mostra tele di tutte le qualità ed abiti pronti. El-Farah sapeva trovare le parole adatte a convincere ed il prezzo era sempre quello che aveva deciso lui. Poteva essere soddisfatto pensando alla povertà ed alla schiavitù di un tempo, all'agiatezza che aveva saputo procurarsi.

Ma un giorno nei pressi del mercato si fermò una carovana; dai cammelli scesero uomini e donne avvolti in drappi che El-Farah mai aveva visto e fecero tintinnare davanti ai suoi occhi monete e monili che lo accecarono: "Ecco chi è veramente libero e ricco, pensò; io me ne sto qui tutto il giorno ad attendere i clienti e quelli possono correre in lungo e in largo per ogni dove, non hanno confini, non hanno obblighi, non hanno impedimenti. Anch'io voglio il mio cammello che sulle sue lunghe zampe mi porti veloce sulle dune e mi faccia riposare all'ombra delle palme nelle fresche oasi del mondo". Vendette tutto quello che aveva e si unì alla carovana.

Per chi non si è mai allontanato dalla propria città e può dire di conoscere bene solo il mercato ed il proprio quartiere, un viaggio nel deserto è un'avventura che riserva sorprese senza fine: l'emozione di un'alba tersa ed accecante dopo una nottata trapunta di stelle dove ti par di toccare la luna; il tremore del tuo cuore che sfiora la paura quando soffia violento il vento del deserto; l'eccitazione di una corsa sui cammelli a gara in prossimità dell'oasi e del riposo. Per non parlare degli incontri ad ogni sosta, delle usanze così diverse, delle città una più estesa dell'altra ed alcune con palazzi così vasti e stupendi che El-Farah non trovava le parole per dire tutto il suo stupore. Si lasciava portare senza far domande, felice di ogni novità, recuperando la parlantina nei mercati dove finalmente si sentiva a proprio agio e con i suoi servigi ai nuovi compagni che raccoglievano merci di ogni tipo, riusciva ad aumentare il gruzzolo cui teneva.

Concluso il giro delle ricche città, la carovana puntò verso sud: era giunta per lei l'ora del rientro. El-Farah sarebbe potuto tornare alla propria città, alla propria casa, ma all'idea di riprendere una vita tranquilla preferì scegliere la vita viaggiante con i suoi imprevisti e la prospettiva di conoscere Bedi Sad, il sultano del deserto: forse sarebbe entrato alla sua corte, al suo sevizio. El-Farah pensava ai racconti del vecchio sarto, alle confidenze dei clienti: essere al servizio di Bedi Sad avrebbe significato condividere potere e ricchezza. Così riprese il viaggio e conobbe il deserto che non ti lascia per giorni e giorni, dove l'oasi diventa un sogno e le fresche acque correnti un'illusione. Solo il pensiero della ricchezza e della potenza lo consolava con la lusinga di una ricompensa che avrebbe fatto scordare disagi e pene. Adesso El-Farah avrebbe voluto fare tante domande, conoscere la sorte che lo attendeva, capire se la sua era stata una buona scelta o una pazzia, ma quando si rivolgeva ai compagni di viaggio riceveva risposte tanto vaghe che, scoraggiato, non insisteva. Avrebbe atteso l'arrivo e l'incontro con il sultano.

Il castello di sabbia si ergeva solenne dietro la muraglia su un'altura in prossimità di un palmeto. Color della terra, solo un occhio esperto lo avrebbe scorto di lontano e anche a chi si avvicinava occorreva osservare con cura per capire che si trattava di una costruzione non di roccia o sabbia. Qualche pinnacolo e qualche candido decoro alle piccole finestre avevano la pretesa di ingentilire quello che senza dubbio era sorto a difesa e manteneva un carattere guerresco. E tutto all'intorno -nonostante lo sciamare dei bambinetti o il via vai delle donne per l'acqua- faceva pensare alla guerra: guardie, armi, sentinelle, controlli. La carovana era stata avvistata ed era attesa in un'eccitazione generale. Il sultano voleva conoscere l'esito della spedizione e alcune guardie ne scortarono i legati dentro il castello con El.Farah stordito e trepidante. Il castello si articolava in una serie di costruzioni concentriche che perdevano via via il carattere militare ed austero per divenire accoglienti padiglioni di svago e riposo. In una delle sale interne il sultano ricevette El-Farah incantato di fronte ad una ricchezza che la sua immaginazione -per quanto avesse provato- non era riuscita a concepire. E non era tanto l'oro o l'argento dei boccali e delle coppe, lo spessore e la preziosità dei drappi e dei tappeti che lo colpivano, quanto la cura e la dovizia dei particolari, il fatto che ogni cosa fosse la migliore che il mondo offrisse. Avrebbe voluto sollevare il tappeto per vedere se il pavimento era d'oro e diamanti, sollevare i tendaggi che certo coprivano marmi pregiati. E se ne stava lì attonito, senza trovare la voce per rispondere al saluto del sultano. Una guardia lo spinse costringendolo all'inchino.

"E così tu sei El-Farah. Mi hanno detto che sei stato di aiuto negli affari" gli disse il sultano con aria canzonatoria. "Non mi sembri troppo lesto a dire il vero". El-Farah a queste parole si risvegliò da quella specie di torpore: "Sultano potentissimo" disse con foga, "ho messo le mie arti al tuo servizio per la fama che di te mi era giunta e sarei ben felice di servirti ancora. Per questo sono qui. Per questo ho lasciato la mia casa ed ho attraversato il deserto". "Se davvero sei bravo come dicono, avrai presto occasione di dimostrarlo. Per ora puoi vivere nel castello, entrare ed uscire, ma non lasciare l'oasi. Tienti pronto".

El-Farah venne accompagnato ad uno dei padiglioni per gli ospiti, gli venne dato un servo, Shamir, che gli fece subito intendere come certe zone del castello fossero tabù per lui. Shamir preparò un bel bagno, una ricca colazione ed El-Farah cominciò ad assaporare quella ricchezza che aveva tanto sognato.

L'indomani verificò la consistenza del gruzzolo che aveva portato con sé e di cui andava tanto fiero. Ma ahimè! Ben poca cosa gli sembrò improvvisamente in mezzo a tanto sfarzo: non avrebbe saputo ripagare nemmeno parte degli arredi della più piccola di quelle stanze. "Sarà l'inizio della mia fortuna" si disse, pensando da dove e come era partito. "Devo solo cogliere al volo l'opportunità che mi viene offerta". Nascose i suoi beni ed andò ad esplorare l'oasi dato che gran parte del castello -scoprì con rammarico- gli era preclusa. Non poteva nemmeno ripercorrere il tragitto che il giorno precedente l'aveva condotto alla vista del sultano. "Per ora ho più limiti che libertà" pensò, ma dimenticò ogni timore una volta all'aperto dove fu accolto dai compagni di viaggio e dai loro amici. Tutti gli offrirono ospitalità ed El-Farah trascorse piacevolmente una giornata dopo l'altra in una festa dopo l'altra, perdendo quasi la cognizione del tempo. Una sera controllando il suo gruzzolo osservò con disappunto che stava assottigliandosi: costavano i regali dell'ospitalità, come pure costava accendere di passione lo sguardo delle splendide fanciulle che danzano. Quegli occhi lucenti e molli, quelle movenze flessuose in un'atmosfera satura di suoni e profumi: tutto avrebbe dato per un piacere che nel piccolo mondo della sua città mai avrebbe potuto nemmeno sognare. Pensò alle parole del sultano e si augurò che l'attesa non fosse ancora troppo lunga. Ma il tempo passava e la ricchezza così vicina e goduta da tutti sembrava non lasciarsi afferrare da lui. Solo quando il gruzzolo fu ridotto a poca cosa e il desiderio di lusso e potenza divenne insostenibile, El-Farah fu condotto alla presenza del sultano.

"E' venuto il momento della prova" gli disse. "Alcuni mercanti mi offrono stoffe e profumi. Voglio che sia tu a trattare". El-Farah vide stendere ai suoi piedi sete meravigliose intessute d'oro e d'argento, panni morbidi dai colori teneri o smaglianti, vide aprire cofanetti di unguenti ed essenze rare. Non c'era prezzo -pareva- che potesse, nella sua memoria, pagare tanta preziosità; e i mercanti sapevano ben presentare la merce per evidenziarne tutti i pregi: i riflessi delle stoffe, i drappeggi, l'intensità dei profumi. El-Farah ebbe un attimo di smarrimento, poi si rese conto che da quel momento dipendeva il suo avvenire. Si avvicinò all'uomo che gli porgeva una boccetta: "Una miscela di essenze unica al mondo che solo il gran sultano Bedi Sad può apprezzare". El-Farah la prese, l'odorò, sembrò convinto: pareva che tutti i fiori della terra esalassero il loro profumo intenso, eccitante. Ne versò una goccia sul dorso della mano massaggiando delicatamente: il calore esaltava l'aroma e lo sguardo del mercante si faceva sempre più soddisfatto, le sue parole sempre più incalzanti a giustificare se non ad alzare il prezzo richiesto. Poi El-Farah alitò sulla mano: un senso di fresco gli fece capire che non di pura essenza si trattava, ma di un preparato che ben presto avrebbe perso tutta la sua fragranza. "Non per te, mio sultano, ma neppure per l'ultimo dei tuoi servi è questo intruglio" e il mercante fu cacciato. "Quanto alle stoffe" aggiunse El-Farah, "sembrano davvero molto belle, ma permettimi, mio sultano, di controllarne la qualità". Ne strappò dai bordi alcuni fili, ne provò elasticità e resistenza, alla fine li bruciò. Così poté concordare un prezzo ben l di sotto di quello richiesto. "Adesso so che posso fidarmi di te" disse il sultano una volta licenziati i mercanti. "Sarai tu d'ora in poi a sovrintendere al mio mercato, a curarti degli approvvigionamenti. Come avrai visto, ogni settimana nell'oasi si radunano varie tribù per lo scambio delle merci. Bada che ci sia sempre di tutto e che non ci siano truffe. Per questo sarai ricompensato, ma ricordati: innanzi tutto la fedeltà. Come posso fare la tua fortuna, così posso fare la tua rovina. Ho diritto di vita e di morte su tutti qui nell'oasi".

Nei giorni che seguirono El-Farah organizzò il nuovo lavoro e ritrovò la gioia della vita attiva: gli vennero aperti i magazzini, ne controllò l'inventario, predispose le merci per il mercato successivo. Quelli che finora gli erano stati compagni di viaggio e poi di feste e banchetti, divennero aiutanti al suo servizio. La ricompensa del sultano non si fece attendere: ogni mattina Shamir gli presentava una veste nuova e gli faceva trovare uno scrigno pieno di monete cui attingere in tutta libertà.. Fu con una certa apprensione che El-Farah si svegliò la mattina del suo primo mercato nelle vesti di rappresentante del sultano. Ma quando fu tra la folla, nel chiacchierio diffuso, nell'intrecciarsi di grida proposte richieste, fu nel suo elemento e scordò ogni timore. I suoi consigli venivano accettati come ordini e la sua mediazione non veniva discussa: certo attraverso di lui era la forza del sultano che si imponeva e che nessuno osava contraddire.

Con il passare del tempo El-Farah si sentì sempre più forte e più ricco: gli giungevano splendidi regali e tutti gli testimoniavano devozione. I periodici colloqui con il sultano erano per lui l'occasione di dimostrare alla corte quanto potere ormai avesse nel decidere degli affari e tutte le porte gli erano aperte. Non occorreva più che Shamir gli rammentasse padiglioni preclusi o che egli vagasse nell'oasi in cerca di accoglienza. Ormai la corte era la sua dimora e il castello non aveva segreti per lui. E' vero, rimanevano gli appartamenti delle donne, ma quello era un altro mondo al quale El-Farah mai pensava, o al quale almeno non aveva ancora pensato. Le danzatrici delle sue lunghe notti occupavano tutti i suoi pensieri, i pensieri lasciati liberi dal mercato -s'intende- perché questa era la sua prima preoccupazione: da lì dipendeva la sua vita ormai. Ma quelli che lo avevano visto attraversare il deserto e giungere rozzo e semplice giovanotto, in estasi davanti ad ogni novità, che lo avevano visto cogliere la benevolenza del sultano e guadagnare una carica cui tanti ambivano, mal tolleravano di ricevere ordini da lui e nascondevano con i sorrisi, talora con l'adulazione, tanto rancore. Soprattutto l'Ebreo -ormai tutti lo chiamavano così- fremeva ai successi di El-Farah: era stato lui ad occupare quella carica alla morte del vecchio sovrintendente: "In via provvisoria" aveva detto il sultano, ma con il passare del tempo l'Ebreo si era convinto che il posto fosse suo ed ora aspettava il momento della vendetta se El-Farah non si fosse rovinato con le sue stesse mani; forse con un piccolo aiuto … E l'aiuto venne dalla bella Fatima.

Danzava tutte le sera a corte ed El-Farah con i suoi doni e le sue promesse ne allettava la speranza di una casa in cui fosse padrona e non serva. Ma un giorno Fatima vide El-Farah incontrare davanti al sultano una delle sue figlie: era venuta per la scelta di un tessuto e con le sue moine aveva convinto il padre a lasciarla assistere alla trattativa condotta dal giovane. Gli occhi grandi e vivaci spiccavano tra le pieghe del velo rosato e parevano riflettere l'oro delle vesti che coprivano l'intera persona. Solo le mani sottili e inanellate apparivano a destare nel cuore di El-Farah pensieri mai provati. Fatima, vedendo lo sguardo di El-Farah scivolare insistente sulla figura della fanciulla, sentì sciogliersi tutti i sogni cullati con amore, svanire la certezza di una vita diversa. Ma si riprese: lei avrebbe incontrato El-Farah ogni giorno, ad ogni ora se avesse voluto, e sapeva quanto la sua danza lo attraesse, lo ammaliasse. La figlia del sultano veniva per i tessuti, non per il giovane, sarebbe rientrata nelle sue stanze, altri capricci l'avrebbero presa, per lei El-Farah sarebbe stato uno dei tanti che servivano suo padre. Quella sera Fatima danzò con passione, cercò di esprimere il meglio della sua arte ed era chiaro a tutti che danzava per El-Farah. Ma il giovane appariva distratto e quando tra gli applausi generali Fatima rimase davanti a lui in attesa di un cenno, si alzò e si ritirò. Quando l'Ebreo seppe dell'episodio, seppe anche che cosa doveva fare.

Incontrò sempre più spesso Fatima: "Perché non danzi per me, Fatima bella?", "Beato quel giovane che è amato da una donna come te" e ancora le diceva: "La tua danza è una passione, chi sarà così pazzo da non cogliere questo bel fiore?", "Chi disprezza un tale dono, merita solo crudele vendetta". E Fatima che sentiva El-Farah sempre più lontano, che vedeva la figlia di Bedi Sad escogitare nuovi pretesti per fermarsi nella sala degli incontri, cominciò a pensare che se non voleva perdere ogni speranza, doveva intervenire. Quando ritenne giunto il momento, l'Ebreo le propose un'alleanza: avrebbero simulato un incontro tra El-Farah e la giovane figlia del sultano denunciando il fatto alle guardie che certamente sarebbero intervenute. Bedi Sad, di fronte alla denuncia, avrebbe dovuto punire l'insolenza del giovane. Fatima esitava, infine si decise: se El-farah con tutte le sue ricchezze non poteva appartenerle, che importanza aveva per lei se finiva in rovina?

L'Ebreo allora -che aveva un suo piano- cominciò ad incontrarsi sempre più di frequente con El-Farah, a parlargli della giovane figlia del sultano che ora appariva spesso al fianco di Bedi Sad e che certo El-Farah aveva notato: così giovane, così avvenente nelle morbide vesti, così interessata a lui; non aveva forse notato gli sguardi, le moine, l'esitare nella sala senza decidersi al ritiro? Certo doveva avere una passione per El-Farah e se davvero così era -ma era certamente così- era la fortuna assicurata per El-Farh: il padre mai nulla aveva negato a quella figlia prediletta. El-Farah sentiva crescere l'interesse, lusingare l'amor proprio e cominciò a sognare di essere un giorno l'erede del sultano. Quando l'Ebreo gli suggerì un incontro con la fanciulla, un incontro segreto, in cui finalmente rivelare i propri sentimenti, El-Farah accettò. L'Ebreo gli indicò il percorso che avrebbe dovuto seguire per giungere ai padiglioni delle donne e quali porte avrebbe trovato aperte fin nel giardino dove sarebbe stato atteso. Quella sera Fatima fece il percorso prima di lui e quando El-Farah giunse al luogo stabilito, davanti all'ultima porta, la porta proibita, le guardie del sultano lo catturarono. A nulla valsero le proteste: venne gettato in prigione e l'indomani Bedi Sad lo fece condurre alla sua presenza.

"Non c'è castigo che possa ripagarmi del danno che mi hai fatto, non c'è pena per la fiducia che hai tradito: hai dilapidato il magazzino, volevi entrare nei padiglioni delle donne".

"Del magazzino non so nulla" cercò di difendersi El-Farah.

"Sono state trovate merci preziose nei tuoi appartamenti e Shamir ci ha detto quanto oro hai nascosto". Era il suo oro accumulato con tanta fatica, ma come provarlo? E le merci, come scagionarsi se solo lui aveva libero accesso al magazzino e le porte non apparivano forzate? Quanto al padiglione delle donne, lo sguardo di Bedi Sad tolse la voglia di dare spiegazioni. E spiegare che cosa? In quel momento El-Farah sentì quanto lontana fosse la figlia del sultano e quanto grande la sua dabbenaggine nell'aver creduto che potesse interessarsi a lui. Così rimase in silenzio, impotente, in balia di una trama che gli si era stretta intorno per la sua ingenuità e le sue illusioni.

Già si avvicinavano le guardie, già il sultano stava per decretare la sentenza, quando El-Farah, in un estremo tentativo di salvezza, gridò: "L'Ebreo, perché non interroghi l'Ebreo?". Era stato lui -ricordò all'improvviso- che gli aveva fatto balenare il miraggio della giovane figlia del sultano, lui aveva ricoperto in precedenza la carica di sovrintendente ai depositi. Se fosse riuscito a fare un sopralluogo, ad interrogare qualcuno, El-Farah era certo che avrebbe scoperto la verità. Ma era nelle mani del sultano, prigioniero, denunciato davanti a tutti. Ben difficilmente adesso qualcuno lo avrebbe aiutato. "L'Ebreo?" chiese il sultano. "Perché dovrei interrogare proprio lui?". "Ti ha servito prima di me" rispose El-Farah. "Certo conosce molto bene il magazzino. Non esprimere subito la tua condanna, dammi almeno una possibilità, lasciami compiere una piccola indagine o vuoi forse punirmi per la pretesa che pensi abbia avuto di varcare la soglia proibita? L'ho varcata quella soglia? Sono stato fermato là davanti per la denuncia di una donna: tu hai la sua parola contro la mia e nessun fatto a mio carico. O posso essere condannato solo per essere stato trovato in quel giardino? Non avevo forse fino a ieri libero accesso ovunque? Se non riuscirò a dimostrare la mia innocenza nell'amministrazione del magazzino, allora a nulla varrà la mia parola e potrai fare di me ciò che vorrai". Bedi Sad rimase pensieroso: il giovane lo aveva servito sempre con rispetto e volle metterlo alla prova. "Mi dici di interrogare l'Ebreo" rispose. "E' vero che l'allarme è stato dato da lui e che lui ha suggerito di interrogare Shamir. Ebbene sarà lui a dimostrarci la tua colpevolezza. Che sia portato qui; a te la tua difesa".

L'Ebreo venne, scortato dalle guardie, accompagnato da Shamir. Si prostrò ai piedi del sultano: "Tu sai con quanta fedeltà ti ho sempre servito" gli disse. "Te l'ho dimostrato anche sventando la truffa di quest'uomo". "Per questo ti ho fatto chiamare" disse Bedi Sad. "Dimmi quello che sai". "E' presto detto" rispose l'Ebreo. "Shamir mi ha parlato degli enormi tesori che trovava celati nel padiglione di El-Farah e ho pensato fosse mio dovere avvertirti". "Quando e dove Shamir avrebbe visto tutti quei tesori?" domandò El.Farah. "Rispondi tu, Shamir" ordinò il sultano. Il servo, imbarazzato, inchinandosi, balbettò: "Li ho visti per caso, tra i tendaggi della camera da letto …". "Ma quando" incalzò El-Farah. "Quando … non so … ieri, ieri l'altro; non sono certo". "Ma tu puoi dire se li hai visti tanto tempo fa oppure in questi ultimi giorni; se hai visto aumentare il mucchio nascosto oppure no!". E il sultano intervenne: "Ci sono cento bastonate per te se non dici la verità". Shamir terrorizzato: "L'ho detto: ho visto per caso un pacco ieri o ieri l'altro, non so. Sono curioso, lo ammetto, e l'ho aperto". "E cosa c'era nel pacco?". "Oro, argento, pietre rare e che altro non so" riprese Shamir. "Se erano nascoste quelle cose, certo dovevano essere molto preziose. E poi so che il mio padrone ha molte monete da parte". "Ma sei tu, Shamir, che tieni pronto lo scrigno per ordine del sultano. Non posso forse usare liberamente di quello che mi viene offerto? E se lo tengo da parte, infrango forse qualche legge? Ma torniamo a quel pacco. Lo hai scoperto per caso in uno di questi giorni, forse ieri; pensaci bene, è importante". Finalmente Shamir ammise: sì, le monete venivano date per ordine del sultano ed il pacco era apparso il giorno precedente. "Allora si può dire che ieri qualcuno ha nascosto nella mia camera le merci del magazzino. Ora si tratta di trovare quel qualcuno", concluse El-Farh.

"E' chiaro che sei stato tu" proclamò l'Ebreo. "Solo tu avevi libero accesso a quel deposito, solo tu conoscevi la disposizione ed il valore delle merci". "In apparenza è vero" disse El-Farah, "ma non dimenticare che anche tu sei stato sovrintendente e che coloro che lavorano nel magazzino, anche se non ne conoscono tutti i segreti, possono essere un aiuto prezioso per chi vuol sottrarre qualcosa". "Dovresti provarlo!" ribatté l'Ebreo. "Ebbene" riprese El-Farah, "se il sultano mi vuol concedere un ultimo favore, ispezionerò il magazzino". Bedi Sad annuì e due guardie scortarono El-Farah fino al deposito.

La costruzione -a ridosso di un lato della muraglia di cinta- aveva una sola porta che dava sul cortile interno, di fronte al secondo ingresso del castello. Sorvegliata giorno e notte da guardie fidate, pareva che nessuno potesse entrare senza eluderle. El-Farah ispezionò attentamente il muro e la porta; interrogò le guardie. Nulla che potesse dargli un appiglio, un'idea. Poi guardò in alto: sul tetto, per l'areazione, degli stretti camini coperti da cappe di piombo, non destavano a prima vista alcun sospetto. Qualcosa però cominciò a muoversi nella mente di El-Farah: "E perché no" si chiese. "Io so di essere innocente e fino a ieri qui nulla mancava. Quindi qualcuno è entrato e deve aver agito questa notte, approfittando della mia lontananza, con tutta probabilità sapendo dove mi recavo". Osservò bene intorno e vide una finestrella che dalla torre dava proprio sul tetto del deposito. "Accompagnatemi fin là" disse alle guardie. "Voglio ripercorrere la strada del ladro". Dalla finestrella ci si poteva calare facilmente sul tetto sottostante del deposito e così fece El-Farah servendosi di una corda che trovò proprio nella torre. Tacche sul muro e sul tetto facevano capire che qualcuno di lì era passato. Ispezionò i camini: uno di essi mostrava chiare tracce di manomissione: la copertura era solo appoggiata ed il muro sgretolato diceva che recentemente era stata divelta. Il passaggio, però, era troppo stretto per El-Farah ed il giovane dovette ritornare alla porta per poter entrare. Una volta nel deposito, trovò detriti in corrispondenza del camino manomesso e tracce evidenti di chi era passato in fretta rovistando in alcuni punti. Doveva aver avuto indicazioni precise il ladro, ma non era qualcuno che aveva dimestichezza con il luogo. "Se trovassi una prova evidente!" pensò El-Farah. E la sua pazienza fu premiata: accanto alla cassa dei preziosi trovò un amuleto. Era certo che non fosse dei suoi uomini ma lo aveva già notato. Lo prese e tornò davanti al sultano. "Mio sultano, adesso posso spiegarti come si sono svolti i fatti" cominciò e fece la sua ricostruzione; infine disse: "Per quel camino non passa un adulto, ma un ragazzino esile e magro può facilmente infilarsi attraverso quel passaggio; lo ritroveremo cercando il proprietario dell'amuleto". L'Ebreo sbottò: "Sono tutte invenzioni, non crederai ad una sola di queste parole, mio sultano. Quell'amuleto, poi, può averlo perso chiunque: tu sai bene quanto sono comuni quegli oggetti!". "Ti faccio osservare, mio sultano" riprese El-Farah, "che questo amuleto ha delle incisioni astrali particolari e che può essere di una sola persona". Allora il sultano spedì le sue guardie a cercare chi avesse perduto l'amuleto e infine condussero Hazir, figlio di uno dei servi addetti al magazzino. L'Ebreo, come lo vide, cercò di guadagnare la porta, ma fu fermato dalle guardie. Hazir, spaventato più dal sultano e dalle guardie che dalle minacce che aveva ricevuto nella notte dall'Ebreo, confessò ogni cosa: L'Ebreo e suo padre gli avevano spiegato che cosa fare. "Io non volevo" concluse Hazir, "ma mi hanno promesso un bellissimo dono". Così fu l'Ebreo ad essere condannato con i suoi complici. "Anch'io ho una colpa" aggiunse El-Farah, "quella di essermi fatto trovare davanti alla porta proibita. Se invece avessi sorvegliato meglio il magazzino …". "Ma non hai varcato quella soglia" disse il sultano, "e davanti al deposito c'erano le guardie; di nulla ti posso accusare. Quanto a Fatima …". "E' mia complice!" si senti gridare l'Ebreo mentre le guardie lo trascinavano verso il carcere. Fatima si prostrò ai piedi del sultano: "Volevo riconquistare il cuore di El-Farah" disse, "e se vuoi punirmi per la mia gelosia, eccomi qui. Ma non voglio pagare per una colpa che non ho commesso. L'Ebreo si è servito di me -solo adesso lo capisco- per allontanare El-Farah dal magazzino, ma nulla io sapevo del suo piano".

Bedi Sad fu clemente.

Fatima riprese le sue danze, El-Farah riprese il suo incarico, la figlia del sultano fu dimenticata …

"Bella la vita nell'oasi, ricca la vita nell'oasi …". "E allora come mai sei qui?" chiedevano i ragazzini intorno quando El-Farah concludeva la sua storia. "Di' la verità, sei stato cacciato" e lo deridevano, lo urtavano, se ne facevano beffe. Per loro era solo un venditore, un venditore di fumo. (gg)