La casa colorata

home.gif (6446 bytes)

Ogni sera, conducendo l'asinello al sicuro lungo l'unica via del villaggio, Kim guardava con crescente ammirazione quelle case di pietra, perfino un palazzo, che sorgevano intorno, solidi sulle loro fondamenta ben interrate. Avrebbe potuto desiderare una casa per sé e per i suoi, ma gli pareva naturale che i discendenti delle più antiche famiglie avessero ricchezze e privilegi particolari, mentre a lui che proveniva da povera gente, abituata a vivere di poco, bastava un recinto di fango con qualche frasca che difendesse dal caldo o dall'umido; se proprio era freddo si poteva rifugiare nelle grotte o nelle tombe dei re ed era in buona compagnia là sotto: giovinetti e fanciulle dalle pareti dipinte portavano frutti, fiori, cibi appetitosi, suggerendogli storie meravigliose piene di felicità. Ma a poco a poco, camminando lungo la solita via, Kim sentì qualche cosa di nuovo nascere nel suo cuore: un'insoddisfazione sottile che di giorno  in giorno si mutava in invidia e non tanto per chi poteva permettersi una casa che lui non aveva, ma per chi aveva potuto abbellirne la facciata con un disegno tutto colore e fantasia. Era il ricordo del lungo viaggio alla Mecca che chi aveva compiuto aveva poi celebrato in un affresco che ne metteva in mostra tutti i dettagli.

Per Kim una casa colorata doveva essere il colmo della felicità: la vedeva sorgere come un fiore nel deserto, al posto di quei giardini che un tempo -si diceva- nascevano anche lì nel suo villaggio ora invaso dalla sabbia, mentre il verde si ritirava sempre più verso il fiume che scorreva ad est, in fondo, al di là delle dune. Più passava a fianco delle case colorate più Kim ne sentiva crescere il desiderio. "Non occorre che faccia un viaggio anch'io" pensava, "basterà dipingere il muro del mio recinto". Ma quando confidò l'idea a suo padre, vide crollare la bella illusione: "Per avere il disegno, bisogna prima avere una casa. E' inutile affrescare un muretto di fango che alla prima pioggia si sfa" disse l'uomo. "A meno che non ti accontenti, duri quel che duri". Ma Kim non voleva un ripiego così misero, il suo disegno doveva essere il più bello e duraturo. E se doveva essere il ricordo di un viaggio alla Mecca, perché non farlo davvero questo viaggio; forse Allah sarebbe stato riconoscente e gli avrebbe dato i mezzi per realizzare il suo sogno. Così un bel mattino Kim prese le sue poche cose, salutò tutti e partì. Sapeva di dover camminare verso sud-est, in quella direzione fin da piccino gli avevano insegnato a dire la preghiera, ma quali strade avrebbe dovuto percorrere, quali difficoltà avrebbe incontrato, non lo sospettava neppure.

Si avviò inconsapevole.

Il primo tratto del viaggio fu piacevolissimo: la novità della situazione, il cambiamento del paesaggio, i nuovi incontri lungo la via, tutto era fonte di curiosità e di interesse. La sabbia gialla del villaggio ben presto lasciò il posto a orti e campi, distese di banani e datteri, dove fin dal primo albeggiare uomini e animali lavoravano pazientemente a strappare al deserto tutti i frutti che potevano. Il movimento si faceva più intenso man mano che Kim si avvicinava all'acqua. E finalmente eccolo il bel fiume scorrere placido, indifferente a tanto lavorio, ripetendo i colori del cielo e della terra. Ed era largo, molto largo. Kim sapeva che doveva attraversarlo e questa fu subito una difficoltà imprevista. "Chiederò a qualcuno" si disse; "ci sarà un guado, un traghetto". Sull'altra riva vedeva sorgere una bella città con i suoi minareti e le sue guglie. Un contadino rispose a Kim che doveva risalire il fiume finché non avesse incontrato il vecchio Shalom, il traghettatore. E Kim riprese con lena la strada. Ne fece molta senza incontrare nessuno e disperando ormai di trovare la persona indicata: forse aveva capito male, forse era stato ingannato. Cominciava ad essere stanco ed il sole era al tramonto. Vide un fuoco apparirgli come una salvezza ed affrettò il passo in quella direzione. Accanto al fuoco un uomo dall'età indefinibile abbrustoliva tuberi rigirandoli lentamente. Kim si avvicinò. Nel volto cotto dal sole vide brillare tra le rughe profonde uno sguardo immobile in lontananze indefinite. La calma del tramonto, la luce intensa del cielo rosso e viola conferivano all'uomo un magico alone. Kim non osava parlare, neppure muoversi. Fu l'altro a compiere il primo gesto porgendogli il tubero più grosso. Mangiarono in silenzio. Poi nel buio della notte, mentre il fuoco covava tra la cenere, Kim confidò i suoi progetti. L'uomo rispose: "Sono io il traghettatore. Un tempo avevo molto lavoro ed ero richiesto da tutti, poi la gente ha imparato ad organizzarsi e ha sempre meno bisogno di me ed io sono stanco, sempre più stanco, non ho più le energie di un tempo. I pericoli in compenso si accrescono e il terribile Sebek non mi dà tregua, sembra avermi dichiarato guerra. Quando sono con la mia feluca nel bel mezzo della corrente e più ho bisogno di concentrazione e di forza per vincerne la resistenza, proprio allora compare a darmi l'assalto. Se potessi batterlo e dimostrare a tutti la mia validità, forse riacquisterei la fama di un tempo, ma un giorno invece sarò battuto e la mia vita finirà". Kim non sapeva che rispondere a tanta confidenza e fissava l'uomo in silenzio. "Ma ti accompagnerò" aggiunse l'altro "anche se preferisco diradare i miei viaggi. Io non riuscirò mai ad arrivare fino alla Mecca, che possa almeno aiutare te". Dormirono vicini, scaldati e protetti dal fuoco.

All'alba si avviarono all'insenatura dove era alla fonda l'imbarcazione, una maestosa feluca che scivolò docile sull'acqua sotto la mano esperta del traghettatore. Kim assaporava il silenzio del fiume, la luminosità dell'ora mattutina, e osservava i gesti lenti e gravi quasi una preghiera. All'improvviso gli occhi di Shalom si incupirono concentrati su di un punto. Anche Kim guardò: qualcosa avanzava sotto il pelo dell'acqua, quasi un tronco nodoso portato dalla corrente; raggiunse la feluca proprio nel mezzo del fiume. Solo allora Kim vide il coccodrillo enorme spalancare minaccioso le fauci in gesto di sfida e prepararsi all'attacco. Il ragazzo non attese oltre. Srotolò una robusta corda che portava con sé, la dispose a cappio e si accinse a dar battaglia. Dovette provare più volte, mentre i colpi di coda minacciavano di capovolgere la feluca, ma alla fine riuscì nell'intento: prese al laccio il muso del coccodrillo chiudendone le fauci e con tutte le forze che aveva lottò per legare ben bene il lungo corpo che si dibatteva furibondo. Alla fine lo issò come un trofeo, mentre Shalom si profondeva in ringraziamenti commosso e incredulo. "Ecco" disse Kim "puoi mostrare a tutti che la tua barca è protetta da Allah" e Shalom, ben sapendo che non c'era modo di compensare quel gesto, giunti a riva disse: "Come piccolo segno di riconoscenza prendi questa pietra, ti darà il giallo per la tua casa e ti ricorderà l'aiuto che mi hai dato". Kim rimase ad ammirare la vasta vela che si allontanava sull'acqua, candida e gonfia sul fiume azzurro, Shalom già immerso nei suoi pensieri, immobile, davanti al terribile Sebek ormai domato.

Il ragazzo si rimise in marcia lungo la via polverosa, verso sud. Si sentiva in pace e felice. Un uomo che avanzava lento a dorso di un asino già carico di canne da zucchero, gli offrì acqua e frutta. "Se vuoi arrivare alla Mecca" gli disse, "devi attraversare il deserto di rocce e giungere al mare". Kim guardò nella direzione indicata: "Sono abituato al sole e alle fatiche" pensò, "riuscirò di certo a passare sano e salvo". Aspettò che il sole cominciasse a calare, poi si avviò.

Il cammino era arduo e solitario. Di quando in quando un rapace compariva a volteggiare altissimo, anche lui solo nella luce abbagliante e caldissima. A Kim piaceva pensarlo come il mitico Horus che lo seguiva benigno, quasi occhio di Allah teso a proteggerlo. Poi venne la note ristoratrice. Kim la trascorse in un riparo casuale, tra alcuni massi, e il giorno seguente ancora luce, sole, caldo, fatica. Kim cercava di risparmiare le forze e i viveri sempre sperando di imbattersi in qualcuno, in un'oasi fresca e riposante. Invece intorno a sé non vedeva che rocce e sabbia e ancora rocce, nessun segno di vita. "Se la Mecca è da questa parte, prima o poi qualche cosa troverò; possibile che nessuno segua questa pista?". Ad un certo punto vide un movimento davanti a sé; lo credette suggestione ma, continuando, capì che davvero c'era qualcuno: un uomo sfinito dal sole, incapace di reggersi, stordito, annaspava nella sabbia e delirava. Kim, ben sapendo che il deserto non perdona gli incauti, pur avendo scorte di viveri e acqua ridotte, non ebbe il coraggio di abbandonarlo. Lo portò al riparo di una grotta e lo curò per tre giorni. Nessuno era passato a cui chiedere aiuto, nessuna speranza si intravedeva. Allora l'istinto fu più forte della carità e Kim, con il terrore di fare quella stessa fine, si rimise in cammino. Il riposo lo aveva sollevato, ma cominciava a sentire le conseguenze della scarsezza di cibo e -quel che era peggio- dell'acqua. Prima di quel momento non aveva conosciuto la paura, ma si era sempre trovato in situazioni che poteva dominare; qui si sentiva impotente, in balìa della sorte. "Che Allah mi abbia abbandonato?" dubitava, ma Allah fu pietoso. Tra le rocce all'improvviso si aprì una verde valletta ombrata da palme che si riflettevano in un chiaro fonte. Una donna ancora giovane e avvenente si specchiava nell'acqua lisciando i lunghi capelli. Kim si sentì portato in un sogno e, dimentico di tutto, lasciò che Suleima lo prendesse per mano, lo facesse sedere accanto a sé offrendogli acqua e cibo, facendolo riposare al suono di una dolce melodia. Poi gli chiese la sua storia. Solo allora Kim ricordò l'uomo che aveva abbandonato sofferente a qualche ora di cammino. "Da ciò che mi racconti, capisco che è Ibn, mio marito" disse Suleima. "Vivevamo felici sul mare, in pace e felici. Alla morte di suo padre Ibn è stato cacciato di casa dal fratello che lo ha privato di ogni bene. Dalla ricchezza alla povertà il passo è stato duro e ora Ibn vuole vendetta. Mi ha trascinato in questo deserto -con quel poco che ci rimaneva- per arrivare nella città sul Nilo dove dicono viva un uomo potente, capace di tutto. Ibn pretende il suo aiuto ed è disposto a vendere me per ottenere ciò che vuole. Quando ho scoperto le sue intenzioni sono fuggita: non voglio perdere la mia libertà. Se ora con me è crudele, Ibn un tempo mi ha molto amata e voglio fare qualche cosa. Portami da lui". Kim l'accontentò, ma quando arrivarono alla grotta l'uomo era sparito, per terra tra la sabbia brillava una pietra rossa, un bel cinabro. Suleima lo raccolse: "Ecco che cosa rimane del mio passato …", poi rivolta a Kim: "Posso accompagnarti fino al mare, da lì ritornerò alla mia famiglia e tu potrai continuare il tuo viaggio" gli propose. Così fecero. La donna ricordava bene la via e in pochi giorni ne percorsero un buon tratto.

Erano in prossimità della pianura e una distesa azzurra si apriva sotto di loro. Kim guardava trasognato quel cielo capovolto mentre Suleima gli diceva: "E' il mare. Siamo quasi arrivati, tra breve ci lasceremo". In quel momento un galoppo li sorprese. Non ebbero il tempo di capire ciò che accadeva, si trovarono circondati da una schiera di cavalieri. "Prendeteli!". Furono legati e imbavagliati, caricati come sacchi su un cavallo e via di nuovo verso il deserto. Kim vedeva solo gli zoccoli del cavallo e la terra che scorreva rapida sotto di loro. I sobbalzi lo intontivano, il sole lo sfiniva, alla fine perse conoscenza.

Si riprese senza sapere quanto tempo fosse passato, dove si trovasse. I primi tentativi di movimento furono difficili, quando finalmente si alzò, si trovò in mezzo ad alcuni servitori mentre alcune guardie venivano a prelevarlo. Attraverso scale e corridoi fu portato nella sala del trono, dove infine gli si presentò il sovrano di quella fortezza del deserto: vicino a lui Ibn stava dicendo a Suleima: "Non meriti pietà, sarai venduta al mercato assieme a questo giovanotto che ti ha aiutata nella fuga". Non valsero le spiegazioni, le invocazioni: i due furono portati via e l'indomani un messo con scorta armata li condusse in città. Kim disse al messo: "Lascia che la donna ritorni dai suoi, ti daranno un ricco premio e se il denaro non ti basterà potrai sempre vendere me. Sono giovane e robusto, ti pagheranno bene e anche il tuo padrone sarà soddisfatto". L'uomo, allettato dai denari, si fece convincere e portò Suleima lungo il mare al palazzo dei suoi fratelli. Il messo ebbe la somma promessa e liberò anche Kim accolto con festa. Avrebbe potuto rimanere quanto avesse voluto, ma già l'indomani preferì riprendere la sua strada. Suleima abbracciandolo gli diede il bel cinabro: "Voglio che tra i colori della tua casa ce ne sia uno che ti ricordi di me" gli disse, e Kim partì.

Dal palazzo di Suleima non potevano più vederlo, quando fu raggiunto da alcune guardie e catturato. Il messo lo aveva atteso e adesso lo portava al mercato: avrebbe guadagnato così un altro bel gruzzolo. Kim non vedeva via d'uscita: fu trascinato in mezzo ad altri ragazzi, in una confusione rumorosa, e ricacciato ogni volta tentasse di allontanarsi. Infine un uomo lo afferrò per un braccio e per vie e viuzze lo spinse fino alla sua bottega. "Mi sembri un po' troppo giovane ma robusto e fai al caso mio. Ho proprio bisogno di qualcuno che mi porti la merce": era un mercante di vasi, ricco ed energico, Kim avrebbe dovuto lavorare per lui tra la bottega ed il mercato. La più piccola pigrizia veniva ripagata a suon di frustate e guai a rompere qualche cosa: erano pene severe. A sera Kim giungeva distrutto al suo giaciglio e spesso si coricava ancora affamato. Allora toccava le pietre ben nascoste nella veste a consolarsi e a sognare la Mecca e una bella casa in cui fosse il padrone. "Dovrei fuggire" si diceva, "ma sono ben sorvegliato, non ce la farò mai".

Un giorno si presentò alla bottega una giovane, una veste azzurra le scendeva flessuosa ai piedi e dal velo due occhi neri fissarono Kim brillanti. "Un bel ragazzo come te non è adatto a questo posto" gli disse, "seguimi". Era Zoreira, la sposa del mercante, che da quel momento tenne Kim sempre con sé. Egli fu ben vestito, ben nutrito, tenuto in casa come servo di fiducia. Un compagno gli insegnò a suonare il flauto e la giovane Zoreira diceva che Kim era un artista con quel piccolo strumento tra le dita. Lo chiamava alla sera a rallegrare i convitati e Kim scoprì che la vita poteva essere facile e piacevole: pian piano il pensiero della fuga si assopì. Una notte mentre suonava una struggente melodia non si accorse dell'arrivo del padrone. "Perdere tempo in queste smancerie!" li aggredì. "A te penserò poi" disse alla moglie e fece legare Kim che fu gettato in cantina. Al buio e al freddo egli cercava un modo per salvarsi, quando la porta si aprì. Zoreira veniva di nascosto a liberarlo. "Se non fuggi sei perduto, mio marito è gelosissimo" gli disse e prima che Kim se ne andasse: "Prendi questa pietra a mio ricordo" aggiunse, porgendogli un bellissimo turchese del colore del mare. Kim senza perdere tempo seguì la via indicata e uscì dalla città. All'alba si imbarcò sulla prima nave in partenza: più lontana andava da lì più sicuro si sentiva.

Il capitano della nave che lo accolse, faceva commercio con il lontano oriente e stava prendendo il largo in direzione di La Mecca. "Se lavorerai per me, ti farò sbarcare nel porto più vicino alla tua meta" e Kim si sentì ormai arrivato. Ma i giorni passavano con noiosa lentezza sempre uguali. Ogni tanto una sosta in un porto mercantile tra la folla colorata e rissosa, gli scambi animati e poi ancora il mare, il cielo, il lavoro sulla nave. "Non siamo lontani dalla tua meta" disse un giorno il capitano a Kim impaziente. "Al prossimo porto dovrai scendere". Si erano appena coricati e Kim provava dopo tanto tempo un nuovo entusiasmo, una nuova euforia, quando un urto lo fece cadere dal giaciglio e colpi, grida, fracasso, un fuggi fuggi generale lo spinsero a correre sul ponte: la nave che aveva appena caricato della merce pregiata, era stata presa d'assalto dai pirati. "Non voglio finire ancora una volta in catene" pensò Kim e, preso il primo arnese che gli capitò in mano, si mise a menar colpi a destra e a sinistra. Non aveva mai sospettato in sé un tale furore, una tale energia, una tale capacità di sottrarsi ai colpi e di attaccare con precisione e determinazione. Se dapprima pensò a difendersi, poi passò ad aggredire e immobilizzò un pirata che, guardandolo trepidante negli occhi, lo fece esitare un momento, ma solo un momento, poi Kim calò un colpo secco che spedì l'uomo all'altro mondo. Kim si sentì dire: "Ben ti sta" e continuò a picchiare con tutte le forze senza troppo riflettere. Alla fine udì la voce del capitano: "Basta Kim. Vuoi ammazzare anche noi?". Si fermò sudato, stravolto, e si guardò intorno: la nave dei pirati si allontanava e i compagni gettavano in mare i corpi dei caduti e dei prigionieri.

Due giorni dopo Kim poteva sbarcare accompagnato dalla riconoscenza di tutti e del capitano che gli diede come ricompensa una pietra nera.


Kim non sentiva il desiderio di entrare nella nuova città e dal porto si allontanò lungo la riva, fermandosi sotto una palma a meditare: il mare da una parte, la città davanti a lui, intorno il deserto questa volta piatto a perdita d'occhio. Kim appoggiato contro il tronco rigirava tra le mani le pietre colorate, pensando a tutto quello che aveva passato, guardando il deserto che lo attendeva. Questa volta era davvero vicino alla meta eppure non sentiva alcuna fretta. Aveva nostalgia della sua casa, dei suoi cari, del suo passato che ora gli sembrava tanto lontano, quasi appartenuto ad un altro, a quel ragazzetto che conduceva un asino lungo le vie di un villaggio e che era partito perché voleva costruire una casa colorata. Le pietre brillavano nella sua mano e gli mostravano alcuni aspetti del suo carattere che neppure aveva sospettato: era stato generoso ma anche egoista ed era arrivato a colpire un altro uomo, ad ucciderlo. L'occhio di Allah lo avrebbe seguito ancora benevolo? L'occhio di Allah … quanto tempo non lo cercava intorno a sé, e ora non se ne sentiva degno. Fu preso da un senso profondo di stanchezza. Si addormentò.

Si svegliò a notte fonda per uno scalpiccio. Si immobilizzò nel buio e rimase all'erta. Un gruppo di beduini discuteva poco lontano un piano d'attacco alla città: il giorno seguente, mentre una nave pirata avrebbe dato l'assalto dal mare, essi sarebbero intervenuti da terra e la popolazione, presa all'improvviso tra due fronti, non si sarebbe potuta difendere. Kim rimase atterrito. Se lo avessero sorpreso, per lui sarebbe stata la fine. Cercò di trattenere perfino il respiro, di farsi piccolo piccolo. Finalmente i beduini se ne andarono per un giro di perlustrazione. Kim si sentì sollevato e volle fuggire. Poi pensò che cosa sarebbe accaduto l'indomani, quanti innocenti avrebbero perso la vita. Rivide lo sguardo del pirata nell'attimo in cui calava su di lui il colpo mortale e sentì che doveva difendere la vita, in qualche modo riscattare quella che era stata persa a causa sua. Di notte non sarebbe riuscito ad entrare in una città che non conosceva, ma all'alba forse sì. Se solo l'attacco non fosse stato predisposto per quel momento … Attese il sorgere del sole, poi si avviò.

Alla porta della città lo fermarono le guardie e Kim chiese di essere condotto dal governatore. Le guardie lo squadrarono dall'alto al basso : un ragazzetto mai visto, che di certo veniva da molto lontano, lui, parlare al governatore? E a quell'ora? Ma chi credeva di essere? E se fosse stato un impostore? Kim non trovava il modo di convincerli. Infine dalle pieghe della veste trasse la pietra nera e la mostrò alle guardie. "Se mi fate passare, questa è vostra" disse. Il dono fece effetto , Kim fu fatto entrare in città e gli venne indicato il palazzo del governatore. Qui lo fermò la guardia d'onore: nessuno poteva entrare senza uno speciale permesso. Kim cercò di spiegare che portava notizie urgenti, ma la guardia era irremovibile, aveva ordini precisi. Allora Kim mostrò la pietra gialla: solo con quel dono poté passare. Attraversò corridoi e giardini fino all'appartamento del governatore; qui incontrò il primo ministro che gli spiegò come il governatore non ricevesse nessuno di prima mattina, nemmeno lui, a meno che non si trattasse di un caso speciale. "Ma è un caso speciale" gli disse Kim. "Se non si provvede subito, la città sarà messa a ferro e fuoco". Ma nemmeno queste parole ebbero l'effetto sperato. Allora Kim prese la pietra rossa: "E' per te se mi lasci entrare" disse e anche questa volta la porta venne aperta. Aveva fatto pochi passi, quando in un giardino colorato di fiori e piante, accanto allo zampillo di una fontana, sorprese una fanciulla. Era sola e cantava accompagnandosi con un liuto. La sua voce dolce e modulata suscitò in Kim un sentimento pieno di pace e desiderio: avanzò verso di lei quasi inconsapevole, ma la fanciulla come vide l'intruso, spaventata, corse a coprirsi il volto con il velo e, temendo un tranello, minacciava di chiamare le guardie. Kim si avvicinò supplicandola: "Vengo come amico a salvare la vita tua e dei tuoi sudditi" le disse. Poi frugò nella veste, c'era ancora il turchese: "Guarda, è dell'azzurro dei tuoi occhi" aggiunse. "E' l'unico bene che mi rimane a ricordo di un caro incontro, ma sarò felice di fartene dono se potrà convincerti delle mie buone intenzioni". La bella Nefer, conquistata dal dono gentile e dalle parole appassionate, prese Kim per mano e lo condusse dal governatore, suo padre. "Non c'è tempo da perdere" spiegò il ragazzo, "se si vuole salvare la città dai pirati". Ma il governatore non voleva prestargli fede: o è una burla o è una trappola, in ogni caso un inganno". Allora Kim disse: "Per arrivare fino a qui mi sono privato di ogni cosa; ho donato tutte le pietre che dovevano servire a costruire la mia casa. Sono disposto a dare ancora di più, pur di salvare delle persone innocenti: consegno la mia vita. Se potrete dire che ho mentito, ebbene, farete di me ciò che vorrete". "Padre mio" aggiunse Nefer, "che cosa vi costa tentare? Sarà meglio che essere sorpresi dal nemico". Il governatore si decise: chiamò ministri e generali e apprestò la difesa. Appena in tempo: dal mare piombarono nel porto i pirati, mentre dal deserto i predoni sferravano il loro attacco. Se contavano sulla sorpresa, furono loro ad essere colti alla sprovvista: la città preparata si difese e li ricacciò.

Il governatore fece venire davanti alla corte il giovane Kim: "Hai salvato le nostre vite e i nostri beni" gli disse. "Chiedi quello che vuoi, non sarà mai abbastanza per ricompensarti di ciò che hai fatto per noi". "La vostra città è piccola ma ricca" rispose il ragazzo. "Penso di potervi chiedere quanto basti a compiere il viaggio che mi ero prefissato". "Meriti molto di più" rispose il governatore. "Eccoti una pietra preziosa, con questa potrai concludere il tuo viaggio e costruire la casa che volevi" e gli consegnò un grosso diamante assieme alle pietre colorate che Kim aveva distribuito al suo arrivo e ad una scorta di cammelli per un viaggio più rapido e sicuro. Kim volle lasciare il turchese a Nefer come segno del suo affetto e ripartì.

La Mecca ormai era vicina e fu facile raggiungerla. Con profonda venerazione Kim entrò nel tempio sacro a ringraziare Allah della sua misericordia: "Con me sei stato buono e grande, aiutami adesso a ritornare al villaggio al di là del Nilo" pregò, e riprese la via di casa.

La fama delle imprese compiute lo aveva preceduto e venne accolto come un trionfatore. La sua gioia fu al colmo quando vide sorgere la casa per sé e i suoi, con i disegni colorati che ricordavano le sue avventure: ogni colore un incontro, ogni colore un pezzetto della sua vita. Non tutto era stato bello, non tutto era stato buono: vicino ai colori chiari e gioiosi, comparivano quelli scuri e tristi, quel nero, poi, meglio se non ci fosse stato e il turchese … il turchese mancava. E anche a Kim mancava qualche cosa.

"Allah mi ha concesso tutto quello che potevo desiderare, eppure il mio cuore non è felice" si diceva. "I miei cari ad uno ad uno se ne vanno, ognuno incontro al suo destino, ed io resto solo nella mia bella casa. Ero forse più felice tra le vecchie mura di fango? Qui ho tanti colori ma manca il tepore di un affetto che riscaldi le stanze vuote e fredde". E il suo pensiero andava a Nefer, alla bella Nefer dagli occhi di turchese.

Un giorno si decise: si sarebbe rimesso in viaggio e sarebbe andato a chiedere in sposa la fanciulla.

Partì con il seguito e i doni che la sua condizione ora gli permettevano. "Tu hai fatto molto per noi" disse il governatore alla sua richiesta, "ma non posso permettere che mia figlia sposi un giovane di modesta origine e che vada ad abitare in un remoto villaggio al di là del Nilo, a miglia e miglia da qui". "Mi avevi detto che potevo chiedere quello che volevo" ribatté Kim, ma l'altro aggiunse: "Mia figlia sposerà Rashid, il governatore della città vicina, le nozze sono state già fissate" e lo licenziò. Kim fece appena in tempo a scorgere Nefer: portava il suo turchese incastonato in un bel collare d'oro e i suoi occhi brillavano di simpatia. Kim si sentì animato da speranza e coraggio. "Allah mi ha aiutato a costruire la casa colorata, troverò il modo di darle anche l'amore".

Camminava lungo il molo immerso nei suoi pensieri, quando si sentì chiamare: "Ma è proprio Kim!". Era il capitano della nave sulla quale egli aveva combattuto i pirati. Furono grandi feste e tanti ricordi. Poi il capitano volle sapere di Kim e il giovane si confidò. "Rashid?" disse il capitano. "E' un uomo senza scrupoli e sul mare corre voce che stia preparando azioni di forza per conquistare le due coste: vuole un impero per sé e non ci sono mezzi che non sia disposto ad usare. Con questo matrimonio egli si assicurerebbe l'appoggio di una città piccola ma con tanti alleati. La tua Nefer sarebbe uno strumento di potere nelle sue amni". Kim sentì sgomento e il capitano continuava: "Sono voci abbastanza fondate. Se Rashid trovasse sicura opposizione, forse il suo progetto non si realizzerebbe, ma finora egli ha saputo con abile diplomazia mascherare i suoi intenti e accattivarsi i favori degli altri governatori; un'alleanza contro di lui pare improbabile". Kim, per quanto complessa si presentasse la situazione, decise di tentare qualche cosa. Aveva già provato una volta come è difficile essere creduti da chi non vuole ascoltare e adesso sarebbe stato ancora più arduo: in città tutti lo conoscevano, sapevano che il governatore lo aveva allontanato e non sarebbe riuscito neppure a parlargli senza uno stratagemma.

Mentre passava attraverso il mercato, venne a sapere che si preparavano grandi feste per le imminenti nozze di Nefer e Rashid e che già dall'indomani cominciavano spettacoli e giochi per tutti. "Ecco un'occasione per entrare nel palazzo" si disse Kim, "potrò confondermi tra giocolieri, saltimbanchi attori". Poi ebbe un'idea. Cercò una compagnia di comici e con il suo aiuto organizzò una recita particolare per il governatore. Quando tutto fu pronto, mandò un messo a palazzo. Il governatore, attratto dall'idea di uno spettacolo a lui ispirato, fissò per la sera stessa la rappresentazione. E davanti ai suoi occhi venne mostrata la vicenda di un capo di stato leale e fiducioso che cade nelle insidie di un altromastuto e subdolo. Alla scena conclusiva apparve Kim che nelle vesti di musico con il flauto accompagnò il coro che spiegava quale pericolo corresse il paese intero. Infine: "Già una volta, o governatore, ho salvato la tua città" disse. "Puoi credere dunque alla mia onestà e non pensare che agisca solo per invidia o per vendetta. Del resto quello che di cui sono venuto a conoscenza e che ti ho illustrato, può essere chiarito da altri e perdona il piccolo inganno cui ho dovuto ricorrere per farmi ascoltare".

Il governatore era costernato, ma alle parole di Kim si aggiunsero le suppliche della bella Nefer. Allora il governatore chiamò i suoi messi e li mandò a cercare informazioni in tutte le città delle due coste. Il piano di Rashid fu così sventato.

Kim si preparava a partire quando il governatore lo mandò a chiamare: "Tu hai mostrato la tua lealtà verso di me anche quando ti ero ostile e mi hai fatto capire che i tesori della terra a nulla valgono di fronte ai tesori del cuore. Mia figlia ti ha già donato il suo amore, io ti concedo la sua mano: in quel villaggio al di là del Nilo vivrà come una regina, mentre sarebbe stata una prigioniera nella città vicina".

Le nozze furono subito celebrate e i due giovani partirono mentre ancora si tenevano i festeggiamenti.

Kim poté così completare i colori della casa, darle quel tepore che mancava. E gli piaceva -con la sposa- rimanere a contemplare i bei disegni, ricordare le svariate avventure. Allora si vedeva ragazzetto intento ad ammirare le dimore altrui, quelle dimore che non sono la felicità se in esse non si vive insieme con amore. Lui lo aveva imparato all'ombra di un muretto di fango, in mezzo a tante avventure, ma pur sempre protetto dall'occhio buono di Allah. (gg)